Rugby Football
Storia e mito di uno sport che è quasi una religione
Description:... Il rugby, sempre più apprezzato e seguito in Italia, è il fratello maggiore del calcio. Forza, onestà, coraggio, spirito di gruppo sono i suoi codici morali e di gioco, percepiti con un’intensità che invece il calcio ha perduto. In meno di due secoli, dall’Inghilterra d’origine alla Rugby World Cup 2015 che si inaugura in questo settembre, il rugby si è aperto strade impensate e sorprendenti nel resto del mondo. Giocatori della ‘palla ovale’ sono diventati leggendari per motivi sportivi, extrasportivi e a volte paradossali, tanto da divenire vere e proprie icone. Come Lloyd McDermott, per il suo leggendario contributo alla fine dell’Apartheid in Sud Africa, o il premiato all black Keith Murdoch, che per il rimorso di un eccesso commesso in un festeggiamento decise di lavare l’onta del disonore sparendo, per sempre, dalla scena sportiva e pubblica. Fino all’epopea della famiglia Francescato: quattro fratelli, tutti, prima o dopo, in maglia nazionale italiana sul campo. Ma che cosa fa del rugby uno sport così speciale, a 13 (League) o a 15 (Union), ma anche a 7 (sevens) che sia? L’autore ne ripercorre, nella storia della diffusione, quella delle idee che lo hanno accompagnato e fondato. In generale, il rugby replica strutture comportamentali e cognitive umane manifestantisi spesso (nella storia) e in più luoghi (nel mondo). Ciò lo ha agevolato nell’attecchire in contesti così diversi da quelli del Commonwealth, da un lato; dall’altro, il rugby ha mantenuto sorprendentemente, e anzi contribuito a diffondere, i valori britannici ancestrali (etica cristiana, romanesimo, libertà come risultato di disciplina). L’autore spiega, dati alla mano (e di prima mano, frutto – come spesso sono – di interviste e inchieste effettuate di persona) come le storie di diffusione e radicamento del rugby, sociali o individuali che siano, seguano percorsi mentali, filosofici, etologici e sociologici analoghi: gli aborigeni polinesiani e melanesiani lo hanno nel sangue, come le stenelle dei loro mari che mimano il rugby surfando a squadre, per acquisire nel gioco l’arte del difendersi facendo gruppo. In Africa ragazzi e ragazze imparano assorbendo come spugne, e il rugby diventa pane per la loro fame di futuro. In Romania i campioni dello Steaua Bucarest furono in prima linea nei moti che abbatterono Ceausescu. Rustico e sparagnino, genuino e terragno il rugby italiano. Denominator comune? L’intenzionalità collettiva e la coscienza dello sfondo sociale, che l’autore mutua dal filosofo John R. Searle e delle quali il rugby è una cartina di tornasole mille volte efficace. Per concludere, poi, con Giambattista Vico (a scapito del moderno Nietzsche), che “è la società, non il singolo individuo, che custodisce e tramanda nel tempo questo accumulo di valori ancestrali”. Valori, ovvero tradizione, che il rugby non fa che rappresentare e praticare. Quel Vico, il reverendo Thomas Arnold, fondatore e codificatore del gioco nel college di Rugby nel lontano 1845, lo leggeva allora con fervore, “come praticamente nessuno faceva allora. Lo capì, e a lui pagò un immenso tributo”.
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